CULTURA

Giudicare ed essere giudicati: note sul giudizio fra Schopenhauer e Hannah Arendt

Street Art. Da Wikimedia Commons.

Street Art. Da Wikimedia Commons.

Se apriamo il dizionario della lingua italiana Sabatini-Colletti, la prima definizione che troviamo sotto la voce giudizio è: “ciò che si pensa di qualcuno o di qualcosa, valutazione che si dà su persone, fatti, ecc.”. Ma per giudicare qualcuno o qualcosa apriamo davvero il vocabolario per capire che tipo di azione stiamo compiendo? Forse no. Giudicare è un verbum agentis, richiede l’azione, un verbo che agisco: “io giudico”, ma anche “sono giudicato”.

Senza entrare nel vivo della grammatica italiana, si può analizzare il termine giudizio per l’uso che quotidianamente ogni persona ne fa. Spesso si sentono e si usano frasi quali: “Non hai diritto di giudicarmi”, oppure “Non si giudica” e simili. Si è venuto a creare il grande “mito” del giudizio altrui nei nostri confronti, di cui troviamo tracce in tantissimi autori di letteratura, filosofia, scienze umane.

Arthur Schopenhauer, il filosofo nato alla fine del Settecento, ha scritto un interessante libretto intitolato Il giudizio degli altri, nel quale – riassumendone il contenuto – ci dice che in tutto ciò che facciamo, l’opinione altrui viene presa in considerazione prima di ogni cosa: riflettendoci, potremo vedere che quasi metà delle angosce umane, dei timori e delle ansie nascono proprio dalla preoccupazione che si ha per l’opinione altrui. A seguire vi sono consigli sul modo di ricevere e ponderare l’altrui giudizio, in quanto smettendo di farlo prevalere su ogni nostro pensiero e dando primaria importanza alle nostre proprie opinioni, a dire di Schopenhauer potremmo vivere meglio e meno angosciati.

Le considerazioni schopenhaueriane perciò si presentano più contemporanee di quanto la loro data faccia pensare. Ma tornando alla definizione del vocabolario italiano, giudicare è valutare, e valutare è determinare il valore di qualcuno o qualcosa, è un considerare attentamente. Se ogni uomo non considerasse attentamente l’altro, che genere di inter-relazioni si creerebbero all’interno di una società, come quella contemporanea, che sempre più spesso si trova mixata di genti, culture, religioni e lingue diverse? Come ci relazioneremmo all’altro che – dal datore di lavoro, al familiare, all’amico, al turista che domanda informazioni per strada – chiede di avere un valore o un giudizio da parte nostra e di porne poi di rimando?

Da un punto di vista storico la questione del giudizio si è spesso fusa con la questione della giustizia. In particolare ci fu, circa cinquant’anni fa, un grande caso di giudizio che per le sue implicazioni scosse tutto il mondo, ovvero il processo a Adolf Eichmann, il funzionario tedesco considerato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei sotto la Germania nazista. Il grande clamore del caso portò molti intellettuali, coinvolti sotto diversi punti di vista, ad esprimere le proprie opinioni. Hannah Arendt si trovò al processo per conto del The New Yorker, e raccolse il suo reportage assieme alle sue analisi in Eichmann in Jerusalem.

Il libro non è solo un resoconto di come si approdò alla sentenza su Eichmann, ma è un’attenta analisi di giudizio. Scrive la Arendt in un passo: “L’idea che l’uomo non ha il diritto di giudicare se non è stato presente e non ha vissuto la vicenda in discussione fa presa – a quanto pare – dappertutto e su tutti, sebbene sia anche chiaro che in tal caso non sarebbe più possibile né amministrare la giustizia né scrivere un libro di storia”. La giustizia, per Arendt, è infatti questione di valutazione: “Sono convinta che noi potremo fare i conti con questo passato solo se cominceremo a giudicarlo con franchezza. Così giudicare serve ad aiutarci a dare una ragione, a rendere umanamente intellegibili eventi che altrimenti si sottrarrebbero a tale riduzione.”.

Le parole della Arendt sono forti, chiare e precise. Dunque, giudicare ci aiuta a capire ciò che può essere apparentemente incomprensibile; soprattutto in un caso come quello del processo Eichmann che, nella sua richiesta di giustizia, coinvolge l’umanità intera. Non commettiamo alcun peccato morale giudicando o valutando, se è questo che turba l’azione del giudicare.
“L’indifferenza è il peso morto della storia, […] è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” (Antonio Gramsci, La città futura, 11 febbraio 1917)

Cristy

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